domenica 26 giugno 2011

I GIOCHI PROIBITI

Capitolo XXXII parte III 

Il gioco dei dadi, delle carte e simili, nei quali la vittoria dipende più dalla fortuna che altro, non soltanto sono divertimenti pericolosi, come il ballo ma, di natura loro, sono semplicemente cattivi e riprovevoli. P- per questo che sono proibiti tanto dalle leggi civili che da quelle ecclesiastiche.
Ma dov'è tutto questo male? mi chiederai.
In questi giochi non è la ragione che dà la vittoria, ma il caso, che spesso favorisce chi di per sé, quanto a destrezza e ingegno, non meriterebbe niente: sotto questo aspetto la ragione è umiliata. Tu mi dirai: Ma ci siamo messi d'accordo! Questo vale soltanto per dimostrare che chi vince non fa torto agli altri, ma ciò non toglie che il patto non sia ragionevole e il gioco nemmeno; perché la vittoria, che deve essere il premio della destrezza, diventa premio del caso, che non merita nessun premio, visto che non dipende, in alcun modo, da noi!
Aggiungi che questi giochi hanno il nome di divertimenti e sono fatti per questo; e invece proprio non lo sono, ma sono soltanto occupazioni a tempo pieno.
Non è forse un'occupazione tenere lo spirito caricato e teso da un'attenzione continua, e agitato da insistenti inquietudini, ansie e paure? Riesci a trovare una tensione più triste, più lugubre e più desolata di quella di un giocatore? Non si può parlare, non si può ridere, nemmeno tossire, altrimenti i giocatori si stizziscono.
Infine nel gioco non c'è gioia se non vinci. E non ti sembra che sia una gioia perversa, giacché si può conseguire soltanto per mezzo della sconfitta e del dispiacere del compagno? t davvero una gioia senza onore.
Sono queste le tre ragioni per cui questi giochi sono proibiti. Il grande Re S. Luigi, sapendo che suo fratello, il Conte di Angiò e il nobile Gautier de Nemours stavano giocando, malato com'era, si alzò e, barcollando, si recò in camera loro, prese i tavolini da gioco, i dadi e una parte del denaro e gettò tutto in mare dalla finestra, e si corrucciò molto contro di loro.
La santa e casta Sara, parlando a Dio della propria innocenza, per metterla in evidenza, dice: Tu sai, Signore, che non mi sono mai fermata a parlare con i giocatori.

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