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venerdì 30 settembre 2011

Combatti la buona battaglia della fede

Dal libro «La vita cristiana» di san Gregorio di Nissa, vescovo

«Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate» (2 Cor 5, 17). del resto ha chiamato nuova creazione l'inabitazione dello Spirito Santo che rende il cuore puro, senza colpa e libero da ogni malizia, cattiveria e vergogna.
Quando un'anima si converte, odia il peccato, si dedica con tutto l'impegno al bene, accoglie in sé la grazia dello Spirito Santo e diviene un essere completamente nuovo. Si avvera allora la parola della Scrittura: «Togliete via il lievito vecchio per essere una pasta nuova» (1 Cor 5, 7) e anche questo detto: «Celebriamo la festa non con il lievito vecchio, ma con azzimi di sincerità e di verità» (1 Cor 5, 8). Queste affermazioni, dico, concordano con quanto è stato detto della nuova creazione. Il tentatore tende molti lacci alla nostra anima, e la natura umana è troppo debole per poter riportare vittoria su di lui. Per questo l'Apostolo ci raccomanda di armarci con le armi celesti: Rivestitevi con la corazza di giustizia e calzate i vostri piedi per annunziare il vangelo della pace, e cingete i vostri fianchi con la verità (cfr. Ef 6,14).
Vedi quanti mezzi di salvezza l'Apostolo ti ha indicato, tutti tendenti ad un unico regno e ad un'unica meta. La vita diventa un sicuro cammino nella via dei comandamenti fino al traguardo finale stabilito da Dio.
L'Apostolo dice ancora: «Corriamo con perseveranza nella corsa, tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della fede» (Eb 12, 1-2).
Chi si dimostra superiore agli allettamenti del pellegrinaggio terreno senza farsi ammaliare dalla gloria mondana, sentirà il bisogno di far sacrificio di se stesso a Dio. Far sacrificio di se stesso a Dio significa non cercare mai la propria volontà, ma quella di Dio e seguirla come buona guida, e poi contentarsi di quanto è necessario per la propria vita. Ciò aiuterà ciascuno a compiere con maggior impegno e serenità i propri doveri per il bene suo e degli altri, come si conviene a un discepolo di Cristo. Questo infatti vuole il Signore quando dice: E chi di voi vuol essere il primo e il più grande, sia l'ultimo di tutti e il servo di tutti (cfr. Mc 9, 35).
Chi accetta questo criterio deve servire gratuitamente, sottomettersi a tutti e dare le sue prestazioni come il debitore che restituisce un prestito ad alto tasso.
Coloro poi che esercitano una autorità hanno un onere ancor maggiore degli altri. Il loro servizio è più impegnativo di quello dei sudditi. Devono dare l'esempio di saper servire umilmente gli altri, considerando i fratelli come un deposito loro affidato da Dio.
Chi ha responsabilità su altri si comporti come un coscienzioso educatore che cura con sollecitudine i fanciulli affidatigli dai genitori. Se vi sarà tale rapporto di intesa e di affiatamento fra chi guida e chi ubbidisce, l'ubbidienza diverrà gioiosa e il comando piacevole. Sarete sicuri di essere sulla via perfetta. Se vi onererete a vicenda, condurrete in terra una vita felice da angeli.

giovedì 18 agosto 2011

Abbiamo Cristo che è la nostra pace e la nostra luce

Diventiamo pace noi stessi

« Egli è la nostra pace, colui che ha fatto di due un popolo solo » (Ef 2, 14). Pensando che Cristo è la pace, noi dimostreremo di portare degnamente il nome di cristiani, se per mezzo di quella pace che è in noi, esprimeremo Cristo con la nostra vita. Egli uccise l’inimicizia (cfr. Ef 2, 16), come dice l’Apostolo. Non dobbiamo dunque assolutamente permettere che essa riprenda vita in noi, ma mostrare chiaramente che è del tutto morta. Non risuscitiamola di nuovo dopo che è stata uccisa da Dio per la nostra salute, non adiriamoci a rovina delle nostre anime e non richiamiamo alla memoria le ingiurie subite, non commettiamo l’errore di riportare all’esistenza colei che è fortunatamente estinta.
Siccome possediamo Cristo che è la pace, così uccidiamo l’inimicizia per praticare nella nostra vita la fede in lui.
Egli abbatté in se stesso il muro che divideva i due uomini, ne fece uno solo, ristabilendo la pace non soltanto con quelli che ci combattono dal di fuori, ma anche con quelli che suscitano contese in noi stessi. Così la carne non potrà avere più desideri contrari allo spirito e lo spirito desideri contrari alla carne, ma la prudenza della carne sarà soggetta alla legge divina. Allora, ricostituiti in un uomo nuovo e amante della pace e, da due, fatti un uomo solo, diventeremo dimora della pace.
La pace è la concordia fra due esseri contrastanti. Quindi ora che è stata eliminata la guerra interna della nostra natura, coltiviamo in noi la pace, allora noi stessi diverremo pace e dimostreremo che questo appellativo di Cristo è vero e autentico anche in noi.
Cristo è la luce vera lontana da ogni menzogna. Impariamo da questo che anche la nostra vita deve essere illuminata dai raggi della vera luce. I raggi del sole di giustizia son le stesse virtù che splendono e ci illuminano perché respingiamo le opere delle tenebre e camminiamo onestamente come alla luce del giorno (cfr. Rm 13, 13). Detestiamo l’agire clandestino e tenebroso e operiamo tutto alla luce del giorno, e così anche noi diventeremo luce, e, come è proprio della luce, illumineremo gli altri mediante le nostre opere buone.
Cristo è la nostra santificazione, perciò asteniamoci dalle azioni e dai pensieri malvagi e impuri.

(tratto da L’ideale perfetto del cristiano

domenica 3 luglio 2011

La speranza di vedere Dio

Omelia 6, sulle beatitudini  Pg 44, 1266-1267

La promessa di Dio è certamente tanto grande da superare l'estremo limite della felicità. Quale altro bene infatti si può desiderare, quando tutto si ha in colui che si vede? Infatti vedere, nell'uso della Scrittura, ha lo stesso significato che possedere, come quel detto: «Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme» (Sal 127,5), dove il verbo significa la stessa cosa, che «possa tu avere». E così pure: Sia tolto di mezzo l'empio perché non vedrà la gloria del Signore (cfr. Is 26,10), dove il Profeta per «non vedere» intende «non essere partecipe».
Quindi colui che vede Dio, per il fatto stesso che lo vede, ha ottenuto tutti i beni, una vita senza fine, l'incorruttibilità eterna, la beatitudine immortale, un regno senza fine, una gioia perenne, la vera luce, una voce spirituale e dolce, una gloria inaccessibile, una perpetua esultanza, insomma ogni bene.In verità quello che vien proposto alla speranza nella promessa della felicità, ha queste immense proporzioni. Ma siccome è già stato prima dimostrato che il modo di vedere Dio si attua alla condizione di avere il cuore puro, in questo nuovamente la mia intelligenza è preda delle vertigini. La purità del cuore infatti non è forse fra quelle virtù che non si possono conseguire, perché superano e oltrepassano la nostra natura? Se Dio si può vedere solo attraverso questa lente di purità e se d'altro canto Mosè e Paolo non lo hanno veduto perché affermano che Dio non può essere visto né da loro né da alcun altro, ciò che il Verbo propone alla beatitudine sembra cosa né mai effettuata né effettuabile.
E quale vantaggio possiamo avere noi dal fatto di conoscere a quale condizione si possa vedere Dio, se poi mancano le forze per raggiungere quanto si è scoperto? Sarebbe infatti come se si dicesse che è cosa meravigliosa soggiornare in cielo perché là si vedono cose che qui sulla terra non si possono vedere. Se con le parole si potesse dimostrare un qualche modo di attuare un viaggio in cielo, allora sarebbe utile agli ascoltatori apprendere che è felicità grande abitare in cielo. Ma sino a quando non potrà essere attuata questa ascesa al cielo, quale vantaggio può dare la conoscenza della felicità celeste? Non costituisce piuttosto un tormento e una delusione, perché ci rende consapevoli di quali beni siamo stati privati, per il fatto che ci è impedito di salire al cielo? E perché allora il Signore ci esorta ad una cosa che supera la nostra natura e ci dà un precetto che va oltre le forze umane?
Ma le cose non stanno così, perché egli non comanda di diventare uccelli a coloro ai quali non ha fornito le ali, né di vivere sott'acqua a coloro per i quali ha stabilito una vita terrestre. Se dunque la legge in tutti gli altri esseri è adatta alle forze di coloro che la ricevono e non costringe a nessuna impresa che superi la natura, comprenderemo senz'altro anche questo dal fatto che è compatibile con le nostre risorse e che non si deve disperare di raggiungere la felicità promessa. Capiremo ancora che né Giovanni, né Paolo, né Mosè, né altri sono stati privati di questa sublime felicità, che proviene dalla visione di Dio. Non colui che disse: «Mi resta solo la corona di giustizia, che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà» (2 Tm 4, 8). Neppure colui che posò il capo sul cuore di Gesù, o colui che udì dalla voce divina: «Ti ho conosciuto per nome» (Es 33, 17).Se perciò coloro che hanno affermato che la visione di Dio è sopra le nostre forze, sono anch'essi beati, e se la beatitudine viene dalla visione di Dio, e se chi ha il cuore puro può vedere Dio, certo la purezza, per mezzo della quale si può raggiungere la beatitudine, non è una virtù impossibile.

  

sabato 2 luglio 2011

Manifestiamo Cristo in tutta la nostra vita

PG 46, 283-286 l'ideale perfetto del cristiano

Tre sono gli elementi che manifestano e distinguono la vita del cristiano: l'azione, la parola e il pensiero. Primo fra questi è il pensiero, al secondo posto viene la parola che dischiude e manifesta con vocaboli ciò che è stato concepito col pensiero. Dopo, in terzo luogo, si colloca l'azione, che traduce nei fatti quello che è stato pensato.Se perciò una qualunque delle molte cose possibili ci porta naturalmente o a pensare o a parlare o ad agire, è necessario che ogni nostro detto o fatto o pensiero sia indirizzato e regolato da quelle norme con le quali Cristo si è manifestato, in modo che non pensiamo, né diciamo, né facciamo nulla che possa allontanarci da quanto ci indica quella norma sublime.E che altro, dunque, dovrebbe fare colui che è stato reso degno del grande nome di Cristo, se non esplorare diligentemente ogni suo pensiero, parola e azione, e vedere se ognuno di essi tenda a Cristo oppure se ne allontani?In molti modi si può fare questo importante esame. Infatti tutto ciò che si fa o si pensa o si dice, sotto la spinta di qualche mala passione, questo non si accorda affatto con Cristo, ma porta piuttosto il marchio e l'impronta del nemico, il quale mescola alla perla preziosa del cuore, il fango di vili cupidigie per appannare e deformare il limpido splendore della perla.Ciò che invece è libero e puro da ogni sordida voglia, questo è certamente indirizzato all'autore e principe della pace, Cristo. Chi attinge e deriva da lui, come da una sorgente pura e incorrotta, i sentimenti e gli affetti del suo cuore, presenterà, con il suo principio e la sua origine, tale somiglianza quale può aver con la sua sorgente l'acqua, che scorre nel ruscello o brilla nell'anfora.Infatti la purezza che è in Cristo e quella che è nei nostri cuori è la stessa. Ma quella di Cristo si identifica con la sorgente, la nostra invece promana da lui e scorre in noi, trascinando con sé per la via la bellezza ed onestà dei pensieri, in modo che appaia una certa coerenza ed armonia fra l'uomo interiore e quello esteriore, dal momento che i pensieri e i sentimenti che provengono da Cristo, regolano la vita e la guidano nell'ordine e nella santità.In questo dunque, a mio giudizio, sta la perfezione della vita cristiana, nella piena assimilazione e nella concreta realizzazione di tutti i titoli espressi dal nome di Cristo, sia nell'ambito interiore del cuore, come in quello esterno della parola e dell'azione.

Il cristiano è un altro cristo

 L’ideale perfetto del cristiano (PG 46, 254s)


Paolo ha conosciuto chi è Cristo molto più a fondo di tutti e con la sua condotta ha detto chiaramente come deve essere colui che da Cristo ha preso il suo nome. Lo ha imitato con tanta accuratezza da mostrare chiaramente in se stesso i lineamenti di Cristo e trasformare i sentimenti del proprio cuore in quelli del cuore di Cristo, tanto da non sembrare più lui a parlare. Paolo parlava, ma era Cristo che parlava in lui. Sentiamo dalla sua stessa bocca come avesse chiara coscienza di questa sua prerogativa: «Voi volete una prova di colui che parla in me, Cristo» (2 Cor 13, 3) e ancora: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).Egli ci ha mostrato quale forza abbia questo nome di Cristo, quando ha detto che è la forza e la sapienza di Dio, quando lo ha chiamato pace e luce inaccessibile, nella quale abita Dio, espiazione e redenzione, e grande sacerdote, e Pasqua, e propiziazione delle anime, splendore della gloria e immagine della sostanza divina, creatore dei secoli, cibo e bevanda spirituale, pietra e acqua, fondamento della fede, pietra angolare, immagine del Dio invisibile, e sommo Dio, capo del corpo della Chiesa, principio della nuova creazione, primizia di coloro che si sono addormentati, esemplare dei risorti e primogenito fra molti fratelli, mediatore tra Dio e gli uomini, Figlio unigenito coronato di onore e di gloria, signore della gloria e principio di ogni cosa, re di giustizia, e inoltre re della pace, re di tutti i re, che ha il possesso di un regno non limitato da alcun confine.Lo ha designato con queste e simili denominazioni, tanto numerose che non è facile contarle. Se tutte queste espressioni si raffrontassero fra loro e si cogliesse il significato di ognuna di esse ci mostrerebbero la forza mirabile del nome di Cristo e della sua maestà, che non può essere spiegata con parole. Ci svelerebbero però solo quanto può essere compreso dal nostro cuore e dalla nostra intelligenza.La bontà del Signore nostro, dunque, ci ha resi partecipi di questo nome che è il primo e più grande e più divino fra tutti, e noi, fregiati del nome di Cristo, ci diciamo « cristiani ». Ne consegue necessariamente che tutti i concetti compresi in questo vocabolo, si possono ugualmente vedere espressi in qualche modo nel nome che portiamo noi. E, perché allora non sembri che ci chiamiamo falsamente «cristiani», è necessario che la nostra vita ne offra conferma e testimonianza.

venerdì 1 luglio 2011

Tempo di nascere e tempo di morire

dalle "Omelie sull`Ecclesiaste"

Tempo di nascere e tempo di morire
"Vi è un tempo per nascere", dice, "un tempo per morire" (Qo 3, 2). Voglia il cielo che sia concesso anche a me di nascere al tempo giusto e di morire al momento più opportuno.Noi infatti siamo in certo modo padri di noi stessi, quando per mezzo delle buone disposizioni di animo e del libero arbitrio, formiamo, generiamo, diamo alla luce noi stessi.Questo poi lo realizziamo quando accogliamo Dio in noi stessi e diveniamo figli suoi, figli della virtù e figli dell`Altissimo. Mentre invece rimaniamo imperfetti e immaturi, finché non si è formata in noi, come dice l`Apostolo, "l`immagine di Cristo". E` necessario però che l`uomo di Dio sia integro e perfetto. Ecco la vera nascita nostra."C`è un tempo per morire". Per san Paolo ogni tempo era adatto per una buona morte. Grida infatti nei suoi scritti: "Ogni giorno io affronto la morte" (1 Cor 15, 31) e ancora: "Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno" (Rm 8, 36). E proprio in noi stessi portiamo la sentenza di morte. E` chiaro poi in che modo Paolo muoia ogni giorno, egli che non vive per il peccato, ma mortifica il suo corpo e porta sempre in se stesso la mortificazione del corpo di Cristo, ed è sempre crocifisso con Cristo, lui che non vive mai per se stesso, ma porta in sé il Cristo vivente. Questa, secondo me, è stata la morte opportuna che ha dato la vera vita. Infatti dice: Io farò morire e darò la vita (cfr. Dt 32, 39) perché ci si persuada veramente che è un dono di Dio esser morti al peccato e vivificati nello spirito. 
La parola di Dio, infatti, promette la vita proprio come effetto della morte.

giovedì 23 giugno 2011

Dio può essere trovato nel cuore dell'uomo

Dalle «Omelie» (Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1270-1271) 

Nella vita dell'uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, bensì nel vivere in salute. Se uno dopo aver celebrato le lodi della salute, prende cibi che gli causano malattie, che cosa gli possono giovare le lodi della salute ? Allo stesso modo dobbiamo intendere il presente discorso, quando il Signore dice che la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell'avere Dio in se stessi: «Beati, infatti, i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8). Mi pare proprio che Dio voglia mostrarsi a faccia a faccia a colui che ha l'occhio dell'anima ben purificato, ma però secondo quanto dice Cristo: «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17, 21). Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l'immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima.Se dunque laverai le brutture che hanno coperto il tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza. Come il ferro, liberato dalla ruggine splende al sole, così anche l'uomo interiore, quando avrà rimosso da se la ruggine del male, ricupererà la somiglianza con la forma originale e primitiva e sarà buono.Quindi chi vede se stesso, contempla ciò che desidera in se stesso. In tal modo diviene beato chi ha il cuore puro, perché mentre guarda la sua purità, scorge, attraverso questa immagine, la sua prima e principale forma. Coloro che vedono il sole in uno specchio, benché non fissino i loro occhi in cielo, vedono il sole non meno bene di quelli che guardano direttamente l'astro luminoso. Così anche voi benché le vostre forze non siano sufficienti per scorgere e contemplare la luce inaccessibile, se ritornerete alla grazia originaria troverete in voi ciò che cercate. La divinità infatti è purezza, è assenza di vizi e di passioni, è lontananza da ogni male. Se dunque queste realtà sono in te, Dio è senz'altro in te. Quando pertanto la tua anima sarà pura da ogni sorta di vizi, libera da passioni e difetti e lontana da ogni inquinamento, allora sei felice per l'acutezza e la limpidezza della vista, perché ciò che sfuggirà allo sguardo di coloro che non si sono purificati, tu invece, purificato, lo scorgerai. Tolta dagli occhi spirituali l'oscurità materiale, avrai la beata visione nella pura serenità del cuore. E questo sublime spettacolo in che cosa consiste?Nella santità, nella purezza, nella semplicità, e in tutti i luminosi splendori della natura divina per mezzo dei quali si vede Dio.

Dio è come una roccia inaccessibile

Dalle «Omelie» (Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1263-1266)


Quanto accade a coloro che dalla vetta di un'alta montagna guardano in basso un mare profondo e insondabile, avviene anche alla mia mente quando dall'altezza della parola del Signore, guardo la profondità di certi concetti.In molte località marittime si può vedere, dalla parte rivolta al mare, un monte quasi spaccato a metà e corroso da cima a fondo. Esso ha nella parte più alta un picco che incombe sulla profondità del mare. Orbene l'impressione di chi volge giù lo sguardo sull'abisso impenetrabile da quell'altezza da vertigini è quella stessa mia quando spingo in basso gli occhi dall'altezza del misterioso detto del Signore: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).Dio qui è proposto alla contemplazione di coloro che hanno purificato il loro cuore. Ma «Dio nessuno l'ha mai visto» (Gv 1, 18), come afferma il grande Giovanni. Paolo con la sua sublime intelligenza conferma e aggiunge: «Nessuno fra gli uomini lo ha mai visto, né lo può vedere» (1 Tm 6, 16). Questa è quella roccia levigata, corrosa e scoscesa che non offre in se stessa alcun appoggio o sostegno per i concetti della nostra intelligenza. Anche Mosè nelle sue affermazioni l'ha detta impraticabile in modo che la nostra mente non vi può mai accedere per quanto si sforzi di aggrapparsi a qualcosa e guadagnare la cima. C'è un detto che taglia a picco la nostra roccia: Non vi è nessuno che possa vedere Dio e vivere (cfr. Es 33, 20).Comprendi ora la vertigine della nostra intelligenza incombente sulla profondità degli argomenti trattati in questo discorso?Ma vedere Dio costituisce la vita eterna. Se Dio è vita, chi non vede Dio non vede la vita.A quali strettezze è mai ridotta la speranza degli uomini!Il Signore però solleva e sostiene i cuori che vacillano, come ha agito con Pietro, che stava per annegare. Egli lo rimise nuovamente in piedi sull'acqua come su un pavimento solido e resistente.Se trovandoci pencolanti sull'abisso di queste speculazioni si accosterà anche a noi la mano del Verbo, si poserà sull'intelligenza e ci farà vedere il vero significato delle cose, saremo allora liberi dal timore e seguiremo la sua via. Ma purché il nostro cuore sia puro. Dice, infatti: «Beati coloro che hanno un cuore puro, perché essi vedranno Dio».

martedì 7 giugno 2011

La gloria che hai dato a me l'ho data ad essi

Dalle «Omelie sul Cantico dei cantici»  (Om. 15; PG 44, 1115-1118)

Se davvero l'amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore, allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l'unità. La salvezza sta infatti nel sentirsi tutti fusi nell'amore all'unico e vero bene mediante quella perfezione che si trova nella colomba di cui parla il Cantico dei cantici: «Una sola è la mia colomba, la mia perfetta. L'unica di sua madre, la preferita della sua genitrice» (Ct 6,9).
Tutto ciò lo mostra più chiaramente il Signore nel vangelo.
Gesù benedice i suoi discepoli, conferisce loro ogni potere e concede loro i suoi beni. Fra questi sono da includere anche le sante espressioni che egli rivolge al Padre. Ma fra tutte le parole che dice e le grazie che concede una ce n'è che è la maggiore di tutte e tutte le riassume. Ed è quella con cui Cristo ammonisce i suoi a trovarsi sempre uniti nelle soluzioni delle questioni e nelle valutazioni circa il bene da fare; a sentirsi un cuor solo e un'anima sola e a stimare questa unione l'unico e solo bene; a stringersi nell'unità dello Spirito con il vincolo della pace; a far un solo corpo e un solo spirito; a corrispondere a un'unica vocazione, animati da una medesima speranza.
Ma più che questi accenni sarebbe meglio riferire testualmente le parole del vangelo: «Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me è io in te, siano anch'essi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17, 21).
Il vincolo di questa unità è un'autentica gloria. Nessuno infatti può negare che lo Spirito Santo sia chiamato «gloria». Dice infatti il Signore: «La gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro» (Gv 17, 22). Egli possedette tale gloria sempre ancora prima che esistesse questo mondo. Nel tempo poi la ricevette quando assunse la natura umana. Da quando questa natura fu glorificata dallo Spirito Santo, tutto ciò che si connette con questa gloria, diviene partecipazione dello Spirito Santo.
Per questo dice: «La gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità» (Gv 20, 22-23). Perciò colui che dalla fanciullezza è, cresciuto raggiungendo la piena maturità del Cristo, viene a trovarsi in quello stato tutto speciale, che solo l'intelligenza, illuminata dalla fede, può percepire. Allora diviene capace della gloria dello Spirito Santo attraverso una vita lontana dai vizi e improntata alla santità. Costui dunque è quella perfetta colomba, alla quale guarda lo Sposo, quando dice: «Una sola la mia colomba, la mia perfetta».

lunedì 23 maggio 2011

Primogenito della nuova creazione

Dai «Discorsi» di san Gregorio Di Nissa, vescovo

(Disc. sulla risurrezione di Cristo, 1; PG 46, 603-606. 626-627) 
E' venuto il regno della vita ed è stato distrutto il dominio della morte. Una diversa generazione è apparsa, e una vita diversa e un diverso modo di vivere. La nostra stessa natura ha subito un cambiamento. Quale è questa generazione? Quella che non scaturisce dal sangue, né da volere di uomo, né da volere di carne, ma è stata creata da Dio (cfr. Gv 1, 13). Come può avvenire questo? Ascolta e te lo spiegherò in breve. Questa nuova prole viene concepita per mezzo della fede, viene data alla luce attraverso la rigenerazione del battesimo, ha come madre la Chiesa, succhia il latte della sua dottrina e delle sue istituzioni. Hai poi come suo cibo il pane celeste. L'età matura è costituita da un altro stile di vita. Le sue nozze sono la familiarità con la sapienza. Suoi figli la speranza, sua casa il regno, sua eredità e ricchezza le gioie del paradiso. La sua fine poi non è la morte, ma quella vita eterna e beata che è preparata a coloro che ne sono degni. «Questo è il giorno che ha fatto il Signore» (Sal 117, 24), giorno ben diverso da quelli che furono stabiliti all'inizio della creazione del mondo e che si misurano col trascorrere del tempo. Questo giorno segna l'inizio di una nuova creazione. Poiché in questo giorno Dio crea un cielo nuovo e una terra nuova, come afferma il Profeta. E quale cielo? Il firmamento della fede in Cristo. E quale terra? Un cuore buono, come disse il Signore, una terra avida della pioggia che la irriga e che produce abbondante messe di spighe.

In questa creazione il sole rappresenta una vita pura, e le stelle le virtù; l'aria una buona condotta; il mare «la profondità della ricchezza della sapienza e della scienza» (Rm 11, 33). Le erbe e i germogli sono la buona dottrina e la Sacra Scrittura, di cui si pasce il popolo, gregge di Dio. Le piante da frutta poi rappresentano l'osservanza dei comandamenti.
In questo giorno viene creato il vero uomo ad immagine e somiglianza di Dio. E non deve divenire il tuo mondo questo inizio: «Questo giorno che ha fatto il Signore»? Questo giorno e questa notte che il Profeta disse diversi dagli altri giorni e dalle altre notti?
Ma non abbiamo ancora spiegato quello che in questa grazia è più importante. Questo giorno ha distrutto le sofferenze della morte. Questo giorno ha dato al mondo il primogenito dei morti. «Io salgo», dice «al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20, 17). O confortante e splendida notizia! Colui che si è fatto per noi uomo, pur essendo l'unigenito Figlio di Dio, per renderci suoi fratelli, si presenta come uomo davanti al Padre, per portare con sé tutti coloro che gli sono congiunti.

lunedì 21 febbraio 2011

Il saggio ha gli occhi in fronte



 
Dalle «Omelie sull'Ecclesiaste» di san Gregorio di Nissa, vescovo

(Om. 5; PG 44, 683-686)

    Se l'anima solleverà gli occhi verso il suo capo, che è Cristo, come dichiara Paolo, dovrà ritenersi felice per la potenziata acutezza della sua vista, perché terrà fissi gli occhi là dove non vi è l'oscurità del male.
    Il grande apostolo Paolo, e altri grandi come lui, avevano «gli occhi in fronte» e così pure tutti coloro che vivono, che si muovono e sono in Cristo.
    Colui che si trova nella luce non vede tenebre, così colui che ha il suo occhio fisso in Cristo, non può contemplare che splendore. Con l'espressione «occhi in fronte», dunque, intendiamo la mira puntata sul principio di tutto, su Cristo, virtù assoluta e perfetta in ogni sua parte, e quindi sulla verità, sulla giustizia, sull'integrità; su ogni forma di bene. Il saggio dunque ha gli occhi in fronte, ma lo stolto cammina nel buio (Qo 2, 14). Chi non pone la lucerna sul candelabro, ma sotto il letto, fa sì che per lui la luce divenga tenebra. Quanti si dilettano di realtà perenni e di valori autentici sono ritenuti sciocchi da chi non ha la vera sapienza. È in questo senso che Paolo si diceva stolto per Cristo. Egli nella sua santità e sapienza non si occupava di nessuna di quelle vanità, da cui noi spesso siamo posseduti interamente. Dice infatti: Noi stolti a causa di Cristo (1 Cor 4, 10) come per dire: Noi siamo ciechi di fronte a tutte quelle cose che riguardano la caducità della vita, perché fissiamo l'occhio verso le cose di lassù. Per questo egli era un senza tetto, non aveva una sua mensa, era povero, errabondo, nudo, provato dalla fame e dalla sete.
    Chi non lo avrebbe ritenuto un miserabile, vedendolo in catene, percosso e oltraggiato? Egli era un naufrago trascinato dai flutti in alto mare e portato da un luogo all'altro, incatenato. Però, benché apparisse tale agli uomini, non distolse mai i suoi occhi da Cristo, ma li tenne sempre rivolti al capo dicendo: Chi ci separerà dalla carità che è in Cristo Gesù? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (cfr. Rm 8, 35). Vale a dire: Chi mi strapperà gli occhi dalla testa? Chi mi costringerà a guardare ciò che è vile e spregevole?
    Anche a noi comanda di fare altrettanto quando prescrive di gustare le cose di lassù (cfr. Col 3, 1-2) cioè di tenere gli occhi sul capo, vale a dire su Cristo.