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mercoledì 19 novembre 2014

Liturgia della veste

La dialettica bibblica tra veste e nudità esprime bene la nostra psicologia; tanto che, nel descriverla, già abbiamo inconsciamente mescolato i dati culturali della Scrittura ai dati culturali della nostra civiltà.In questa prospettiva, accanto ai momenti culminanti, in cui si abbozza una liturgia del nudo, c’è, più diffusa e corrente, tutta una liturgia della veste, sia di tipo simbolico che cerimoniale.Presente quest’ultima nel vecchio testamento in cui- in un clima fortemente sacralizzato- l’abito, da livrea della colpa, si fa divisa culturale. Probabilmente da quel clima, restaurato dalla veterotestamentarizzazione liturgica del medioevo, dipende in parte il culto del “santo abito”, così diffuso, nei presbiteri e nei conventi, fino a qualche tempo fa. Le sovrapposizioni simboliche elucubrate, specie nei monasteri femminili, su ogni particolare dell’abbigliamento, rasentavano spesso il ridicolo; e non è certo su questa traccia che l’uomo d’oggi può trarre utili indicazioni di preghiera. La nostra mentalità sanamente desacralizzata non ama presentarsi a Dio in vesti speciali, come non ama parlargli in lingue speciali perché non ritiene speciale la zona religiosa, ma ricorda, anzi, che il primo culto da rendere a Dio è la vita e che l’azione liturgica deve innestarsi su di essa in connessione strettissima. In questa chiave possiamo leggere la contestazione della veste talare che non è desiderio mondano di eleganza ma lotta a uno dei segni di una casta che riporta, nel nuovo patto, la struttura sacrale dell’antico .
Più feconda può essere la traccia simbolica dai Salmi all’Apocalisse in prevalenza di tipo sponsale: “son giunte le nozze dell’agnello, pronta è la sua sposa; le è stato dato di avvolgersi in una veste di puro bisso splendente: la veste di lino che raffigura le giuste opere dei santi” Ap 10,8). Guai se ci invischiamo in un minuto e piccino simbolismo; ma anche noi, liberamente, possiamo avvolgere il nostro amore in una veste bianca e rossa, recuperando il senso della gioia e della festa, espressa nell’abito e nei suoi ornamenti. E come l’austerità e la penitenza possono trovare l’unica manifestata dall’abito religioso, quasi che nel convento non esista la pasqua)- così il gaudio invade le stoffe, le drappeggia, le ravviva, le colora. E sarà bello, nel clima di universale palingesi del sabato, prepararsi alla veglia in vesti nuove, lievi e chiarissime, con tenui tinte d’alba; e rinnovare la biancheria e ornare la casa. Perfino un certo superfluo di eleganza- quando non sia spreco o vanità – può acquistar senso e valore, come lo ebbe l’aroma delle donne, sparso sui piedi di Gesù, come lo ha l’incenso che profuma le chiese. Così potremo convogliare nella preghiera il gusto e il sapore della materia: i solidi e compatti cotoni, i nitidi lini, le aeree, leggerissime sete; l’austerità e la festa dei colori: cupi neri e violetti, morbidi e densi azzurri, aspri e aggressivi gialli e verdi, incandescenti rossi, tenui e lievissimi rosa, celesti aerei, bianchi luminosi…E la sera, tolti gli abiti che abbiamo usato lungo il giorno, indosseremo vesti più lievi, libere, essenziali: semplici tuniche sopra la nostra nudità che rinviano la mente a colloqui intimi, a contatti ravvicinati, a preghiere profonde. O magari resteremo soli col nostro corpo: il vestito più bello che ci ha indossato Iddio.

Adriana Zarri

Tratto da 

Teologia e antropologia della preghiera 





 

venerdì 7 novembre 2014

Vestito e nudità



Il linguaggio gestuale ha le sue zone di intimità; a cominciare dalla valutazione del corpo che non può sempre pubblicamente esprimersi, nella sua disvelata pienezza e, anzi, costretto normalmente a mortificarsi con l’umiliante copertura del vestito. Le nostre ossessioni ci hanno portato a vedere la nudità e la veste quasi soltanto in chiave sessuale; ma ben più vaste sembrano le loro implicanze. Nella Bibbia la veste fa parte integrante della persona: è la sua dignità e la sua difesa; e il pudore che la esige non è solo un ritegno sessuale ma un più profondo rispetto dell’uomo e di tutti i suoi riserbi e segretezze: una zona di inviolabilità che non è lecito varcare; e il varcarla è un affronto, uno scherno, un’avvilente umiliazione. La persona denudata è indifesa, in balia dell’altro, priva del suo decoro. Eppure la nudità appare anche lo stato ideale dell’uomo. Nudi erano i progenitori, prima della colpa, e nudi, secondo un vangelo apocrifo, saranno gli ultimi uomini quando alla fine dei tempi, la colpa sarà totalmente consumata; e il mito di questo inizio e di questo ritorno è denso di significato; così come splendidamente allusivo è il simbolo di Adamo ed Eva che si scoprono nudi e avvertono, d’improvviso, la vergogna solo dopo la colpa e in conseguenza di essa. La colpa ha portato nel mondo la divisone, e il pudore della nudità fisica è una difesa dell’io di fronte a un tu che sente “altro” , diverso e potenzialmente aggressivo e violatore. Ecco allora la veste come barriera e limite che poniamo all’incontro. Essa costituisce indubbiamente un diaframma tra i due; ma è proprio quel diaframma che ci difende dall’intrusione di un estraneo, in una zona di tale intimità che può venire visitata solo da un altro se stesso. Il rapporto tra le persone oggi esige normalmente una certa distanza , una certa difesa; non è quasi mai così totalmente disarmato da potersi offrire del tutto senza veli e riserbi. Soltanto quando il “tu”che ci è di fronte non ci sta più di frontre ma ci entra dentro , quasi un secondo “io” (alter ego), quando, sconfitta ormai la divisione, non è più sentito come altro ma come parte di noi stessi, allora, scomparso il senso dell’alterità, noi siamo del tutto disarmati, in una totale remissione. A questo punto il nudo può essere la veste più adeguata del rapporto. Così nudi ci appaiono gli amanti del Cantico; e nude sono certe figurazioni degli artisti che collocano l’uomo nuovamente- o finalmente – nell’Eden.

Adriana Zarri
tratto da
teologia e antropologia della preghiera