martedì 8 marzo 2011

La vera scienza rifugge dalla superbia


Dal «Commento al libro di Giobbe» di 

(Lib. 23, 23-24; PL 76, 265-266) 
«Ascolta, Giobbe, i miei discorsi, ad ogni mia parola porgi l'orecchio» (Gb 33, 1). L'insegnamento delle persone arroganti ha questo di proprio, che esse non sanno esporre con umiltà quello che insegnano, e anche le cose giuste che conoscono, non riescono a comunicarle rettamente. Quando insegnano danno l'impressione di ritenersi molto in alto e di guardare di là assai in basso verso gli ascoltatori, ai quali sembra vogliano far giungere non tanto dei consigli, quanto dei comandi imperiosi.
Ben a ragione, dunque, il Signore dice a costoro per bocca del profeta: «Li avete guidati con crudeltà e violenza» (Ez 34, 4). Comandano con durezza e violenza coloro che si danno premura non di correggere i loro sudditi, ragionando serenamente, ma di piegarli con imposizioni e ordini perentori.
Invece la vera scienza fugge di proposito con tanta più sollecitudine il vizio dell'orgoglio, quanto più energicamente perseguita con le frecciate delle sue parole lo stesso maestro della superbia. La vera scienza si guarda dal rendere omaggio con l'alterigia della vita a colui che vuole scacciare con i sacri discorsi dal cuore degli ascoltatori. Al contrario, con le parole e con la vita si sforza d'inculcare l'umiltà, che è la maestra e la madre di tutte le virtù, e la predica ai discepoli della verità più con l'esempio che con le parole.
Perciò Paolo, rivolgendosi ai Tessalonicesi, quasi dimenticando la grandezza della sua dignità di apostolo, dice: «Ci siamo fatti bambini in mezzo a voi» (1 Ts 2, 7 volgata). Così l'apostolo Pietro raccomanda: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» e ammonisce che nell'insegnare vanno osservate certe regole, e soggiunge: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, e con una retta coscienza» (1 Pt 3, 15-16).
Quando poi Paolo dice al suo discepolo: «Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità» (Tt 2, 15), non chiede un atteggiamento autoritario, ma piuttosto l'autorità della vita vissuta. Si insegna infatti con autorità, quando prima si fa e poi si dice. Si sottrae credibilità all'insegnamento, quando la coscienza impaccia la lingua. Perciò è assai raccomandabile la santità della vita che accredita veramente chi parla molto più dell'elevatezza del discorso. Anche del Signore è scritto: «Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7, 29). Egli solo parlò con vera autorità in modo tanto singolare ed eminente, perché non commise mai, per debolezza, nessuna azione malvagia. Ebbe dalla potenza della divinità ciò che diede a noi attraverso l'innocenza della sua umanità.

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