giovedì 11 dicembre 2014

Gesù Bambino nella greppia


Per Natale, quest’anno ho fatto due presepi: uno in casa e un secondo nella stalla. Disponendo di una stalla, con tanto di greppia, mi pareva che quella fosse la collocazione più adeguata: tanto che poi ho deciso di lasciarlo, anche durante l’anno. Anziché un’altra immagine sacra egli è lì tra il disordine e i topi; come forse neanche a Betlemme gli mancavano. Poiché accanto alla casa non si coltiva grano, non ho paglia; e tutti gli anni, il fornitore è Giacomo. Viene con una mezza balla ( e me ne basta molto meno; il resto farà da strame per le bestie) e io ci colloco sopra la statuina di gesso. E’ un presepio da poveri. La paglia, Gesù Bambino e basta (in quello di casa, per ornamento, c’è solo un volo d’angeli: una ceramica di Faenza, essa pure un regalo di amici di là). E’ un presepio da poveri; ma è il Signore che seguita a nascere, e non finisce mai di morire, e non finisce mai di risorgere, nella carne del mondo. Nasce non tanto “nell’anima”, come un’ascesi tutta spiritualistica ci ha insegnato a ripetere: nasce nella vita; nasce dal nostro ascolto, dalla nostra attesa, dal nostro umile e dolce accordarci con i ritmi profondi delle cose. E noi gli siamo utero, cesto, nido.
L’incarnazione non è una storia privata: è la storia del mondo; e Cristo non nasce solo nella greppia. Il Verbo sposa la terra e si fa terra, carne, tempo, storia, finitezza, condizionamento, situazione umana, nella sua complessità e nella sua povertà, vita del mondo, con la sua complessità e nella sua povertà, vita del mondo, con la sua concretezza e i suoi limiti. E la vita- questa vita assunta da Dio- è fatta di me, di voi, di storie e destini innumerevoli, di vicende cosmiche e piccoli accadimenti quotidiani. Anche di neve è fatta la vita, e di germogli che dormono, di gatti che ronfano, di stufe che borbottano; e di polente che inondano le tavole, come lume d’inverno. 

Dopo gli incontri dolci con gli amici, che hanno sfidato freddo e neve per i doni e gli auguri natalizi, torna la solitudine compatta. Non mi sono lasciata sedurre dai tanti inviti. Per le feste una persona sola sembra che faccia pena (che pena sprecata, nel mio caso!) e gli inviti si moltiplicano. Ma io ho sempre difeso il mio Natale, anche quando non ero un eremita, ma il monachesimo ce l’avevo dentro, in un bisogno di silenzio; e così Pasqua ele festività importanti. Se mai un pranzo potrà essere accettato nei giorni successivi. 

Ricordo quando abitavo a Roma, in una di quelle case con le pareti di carta velina, con i rumori che passavano i muri, soffitti e pavimenti. E mi giungeva, confuso, il chiacchiericcio vuoto di tavolate che s’intuivano convenzionali, con discorsi di nulla. Io “là sola come un cane” facevo pena a loro; ma loro facevano assai più pena di a me. Sentivo il pomeriggio che naufragava in chiacchiere sempre più stanche; e il mio silenzio, invece, a onta di quelle interferenze, si faceva più denso, più compatto, più felice. Tanto più adesso che la mia casa ha solide pareti contadine e al di là c’è soltanto la stalla e lo starnazzare dei polli. I mesi freddi – l’ho già detto- sono più solitari. Il pericolo precedente il Natale è un parentesi di incontri- dolce come sarà poi dolce il silenzio- ma dopo la parentesi si chiude. La chiude il freddo, l’inclemenza del tempo, la sorda barriera delle nebbie, il desiderio di ciascuno di restare più in casa, di coltivare la domesticità. Ed io ricado nel bianco silenzio dell’inverno illuminato dalla neve, come su di un lenzuolo bianco che accoglie la mia contemplazione. Sono grata agli amici per essere venuti a salutarmi; ora sono loro grata perché mi lasciano in silenzio. Il telefono aveva squillato a lungo con chiamate da tutte le parti d’Italia: di amici e anche di sconosciuti; ed era stata una dolce manifestazione d’affetto. Ora tace anche lui. Sul tavolo ho ancora i segni delle festività: resti di panettoni e di liquori con cui tanti hanno voluto ricordarmi. E io prolungo le ricorrenze liturgiche, contestando le stolte contrattazioni tra il Vaticano e stato per la riduzione delle feste che hanno abolito l’Epifania in favore dell’Immacolata. Si capisce che le trattative sono state condotte dai diplomatici che non sanno nulla della storia di liturgia e teologia. Ma al Molinasso l’Epifania si festeggia ancora, con la medesima solennità di un tempo. Questo Natale dei pagani, questo Natale ecumenico ha, nella mia cappella, la risonanza che merita e che la storia e la liturgia gli hanno decretato fino ad oggi. Gesù Bambino nella stalla si sta ambientando a un clima certo più rigido di quello di Betlemme. Un topo gli ha rosicchiato la vestina scoprendo un angolo di carne nuda. L’ho ricoperto con paglia senza eccessive preoccupazioni. Dopo tutto, se voleva, poteva ben mandarlo via; se l’ha tenuto vuol dire che il topettino gli piaceva, e magari ci ha conversato un poco. Del resto il mio Signore non è esigente. L’ho abituato bene, e se non ci sono fiori, non pretende che vada dal fioraio: costa troppo. Si contenta di qualche pannocchia di granoturco, qualche zucchina ornamentale, qualche fiore secco, qualche ramo. Del resto l’idea che soltanto i fiori freschi facciano decorazione è molto restrittiva e molto ingiusta verso altri pezzi di natura non meno belli: come un cesto di frutta, o un’erica seccata che serba il suo delicato color viola, un mazzo di spighe (bellissime le varietà dei prati: bellissime verdi ed essiccate ) ; o anche soltanto un ramo. I biancospini hanno rami elegantissimi. D’inverno la mia casa non ha fiori, ma è sempre adorna di qualche pezzo di mondo che mi entra dentro a farmi compagnia. In questo momento, in cappella c’è un nido d’uccello con le ovette. Naturalmente non sono andata a rubarlo sulla pianta, come fanno i monelli: l’ho trovato ai piedi di un albero e l’ho portato ai piedi del Signore. E credo proprio gli piaccia. Se non gli piacesse dimostrerebbe di avere scarso gusto, ed è un ipotesi che non posso prendere in considerazione. 



Adriana Zarri

Tratto da un Eremo non è un guscio di lumaca.

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